venerdì 6 novembre 2015

Censurata la genericita' delle richieste di indebito INPS: in tali casi e' onere esclusivo dell'istituto provare gli elementi costitutivi della pretesa (Cassazione, Sentenza n° 28516/2008)

Con sentenza del 1° dicembre 2008, n. 28516, la Sezione lavoro della suprema Corte di Cassazione ha stabilito che se l’Inps richiede la restituzione dell’indebito, anche per suo errore, e l’assicurato impugna l’atto di richiesta di restituzione dell’indebito in tribunale - chiedendo che sia negata la sussistenza dell’indebito – su tale Istituto grava comunque l’onere di dimostrare gli elementi costitutivi della pretesa.
Per tale indebito contributivo la suprema Corte di Cassazione ha chiarito che «chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento».
Con tale sentenza è stato quindi negato all’Inps il ricorso che presupponeva che l’onere della prova fosse a carico all’assicurato, che pure aveva agito in giudizio contro l’inps.

FATTO E DIRITTO
Una dipendente ricorreva alla Corte di Appello contro la sentenza con la quale il Tribunale aveva respinto la domanda da lei proposta al fine di negare la sussistenza dell'indebito previdenziale rivendicato dall'INPS, ritenendo che la somma da esso richiesta le fosse stata indebitamente elargita e che fosse stata correttamente applicata la disciplina di cui alle leggi al riguardo vigenti.
La stessa dipendente aveva dedotto tra l'altro che l'INPS non aveva dato adeguata dimostrazione della effettività dell'indebito in presenza di una specifica ed espressa contestazione da parte sua.
La Corte d’Appello aveva comunque riconosciuto che la normativa vigente in tema di ripetizione di indebito era stata correttamente applicata dal primo giudice, ma che tuttavia l'assicurata, cui era stata inviata in via stragiudiziale una richiesta di restituzione di somme asseritamene corrisposte senza titolo, aveva espressamente contestato in radice la stessa validità del provvedimento, deducendo che la sua genericità non le aveva consentito di individuare gli effettivi termini dell'obbligazione restitutoria.
Dunque la stessa Corte di Appello aveva trovato eccessivamente gravoso addossare alla dipendente l'onere della prova peraltro richiesta dalla stessa dipendente che aveva l'onere di dimostrare gli elementi costitutivi della sua pretesa.
Ed avendo riscontrato che, in effetti, nel provvedimento emesso in via amministrativa l'Inps non aveva dedotto, né dimostrato perché la somma richiesta dovesse ritenersi indebitamente elargita, ha accolto l'appello, dichiarando la irripetibilità dell'indebito.
Contro tale sentenza l'INPS ha proposto ricorso in Cassazione.
LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE
Per la Corte di Cassazione è indubbio che nell'indebito oggettivo, previsto dall'art. 2033 cod. civ., costituisce elemento della fattispecie costitutiva del diritto alla ripetizione non solo l'avvenuta esecuzione del pagamento, ma anche la mancanza di una causa che lo giustifichi, cioè l'inesistenza del vincolo giuridico idoneo a giustificarlo o il successivo venir meno della causa debendi.
Sul piano processuale ne deriverebbe l'esigenza che l'attore in ripetizione indichi tempestivamente, con la specificazione richiesta dalle circostanze, le ragioni per le quali il pagamento è qualificabile come indebito, ragioni che concorrono ad integrare la causa petendi, e che debba provvedere alla prova delle relative circostanze.
Né vi è ragione di ritenere non applicabili tali principi di carattere generale nella materia previdenziale.

Sulla materia l'orientamento giurisprudenziale dominante si collega a opinioni autorevolmente sostenute in sede dottrinale già nella vigenza del codice di procedura civile del 1865, sul presupposto del rilievo preminente svolto in materia di onere della prova dalla posizione processuale delle parti e della esistenza di un onere più ampio, c.d. primario, a carico dell'attore.
Si è anche ritenuto che l'attribuzione in ogni caso dell'onere della prova all'attore in accertamento negativo costituisca una sorta di necessario contrappeso alla ritenuta ammissibilità delle azioni di accertamento, la cui proposizione altrimenti potrebbe mettere in difficoltà la difesa del convenuto (o comunque vessarlo).
Peraltro l’art. 2697 c.c., dispone che «chi vuol far valere un diritto in giudizio» - implica che sia colui che prende l'iniziativa di introdurre il giudizio ad essere gravato dell'onere di «provare i fatti che ne costituiscono il fondamento» contrasta innanzitutto con la stessa lettera della disposizione, poiché l'attore in accertamento negativo non fa valere il diritto oggetto dell'accertamento giudiziale ma al contrario ne postula l'inesistenza, ed è invece il convenuto che virtualmente o concretamente fa valere tale diritto, essendo la parte controinteressata rispetto all'azione di accertamento negativo.
Una considerazione complessiva delle regole di distribuzione dell'onere della prova di cui ai due commi dell'art. 2967 c.c. (che, come osservato in dottrina, può essere considerato specificazione del più generale principio secondo cui l'onere della prova deve gravare sulla parte che invoca le conseguenze per lei favorevoli previste dalla norma), conferma che esse sono fondate non già sulla posizione della parte nel processo, ma sul criterio di natura sostanziale relativo al tipo di efficacia, rispetto al diritto oggetto del giudizio e all'interesse delle parti, dei fatti incidenti sul medesimo.
Quindi per la Corte di Cassazione -sulla base delle osservazioni che precedono in ordine all’onere della prova nelle azioni di accertamento negativo e in quelle di ripetizione dell'indebito, risulta quindi confermata l'infondatezza del ricorso dell'Inps.

A seguire il testo della Sentenza
Corte di Cassazione
Sezione lavoro
sentenza 1 dicembre 2008, n. 28516
Presidente - Relatore Mattone
 
Svolgimento del processo Con ricorso alla corte di appello di Roma Alfonsina Anna Corsetti ha impugnato la sentenza con la quale il tribunale aveva respinto la domanda da lei proposta al fine di negare la sussistenza dell'indebito previdenziale rivendicato dall'INPS, ritenendo che la somma da esso richiesta le fosse stata indebitamente elargita e che fosse stata correttamente applicata la disciplina di cui alle leggi al riguardo vigenti. L'appellante ha dedotto tra l'altro - per quanto qui in particolare interessa - che l'INPS non aveva dato adeguata dimostrazione della effettività dell'indebito in presenza di una specifica ed espressa contestazione da parte sua. Con sentenza dell'11 gennaio 2005 la corte territoriale, premesso che la normativa vigente in tema di ripetizione di indebito era stata correttamente applicata dal primo giudice, ha osservato che, tuttavia, nella specie l'assicurata, cui era stata inviata in via stragiudiziale una richiesta di restituzione di somme asseritamene corrisposte senza titolo, aveva espressamente contestato in radice la stessa validità del provvedimento, deducendo che la sua genericità non le aveva consentito di individuare gli effettivi termini dell'obbligazione restitutoria. Nei casi in esame - ha proseguito il giudice di appello - sarebbe eccessivamente gravoso addossare al presunto accipiens che abbia agito in giudizio per l'accertamento della inesistenza dell'indebito l'onere di provare che esisterebbe un titolo del pagamento, laddove dal provvedimento emesso dall'Ente non emergano prima facie gli stessi estremi del pagamento e le condizioni che non ne legittimerebbero la corresponsione, sì che in tali ipotesi è il preteso creditore nel rapporto sostanziale che ha l'onere di dimostrare gli elementi costitutivi della sua pretesa, ancorché sia convenuto in giudizio. Ed avendo riscontrato che, in effetti, nel provvedimento emesso in via amministrativa l'Ente non aveva dedotto, né dimostrato perché la somma richiesta dovesse ritenersi indebitamente elargita, ha accolto l'appello, dichiarando la irripetibilità dell'indebito. Avverso tale sentenza l'INPS ha proposto ricorso per cassazione sulla base di un unico motivo. Si è costituita l'assicurata mediante controricorso. Motivi della decisione 1. - Con l'unico motivo il ricorrente Istituto, nel denunziare la violazione ed errata applicazione dell'art. 2697 cod. civ. in relazione all'art.360, nn. 3 e 5, c.p.c., sostiene che la supposta genericità della richiesta non varrebbe di per sé a determinare la sussistenza o meno dell'indebito previdenziale, sussistenza che deriva soltanto dalla circostanza che un trattamento sia stato erogato in assenza dei requisiti di legge. Richiama al riguardo la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, essendosi in presenza, in questa materia, di una mera attività di certazione da parte dell'INPS, riconducibile ad una verifica delle condizioni di legge che fanno sorgere e, correlativamente, consentono la permanenza del diritto al trattamento previdenziale, l'azione proposta davanti al giudice per ottenere, se negato in sede amministrativa, il riconoscimento di una prestazione, non coinvolge la verifica della legittimità o meno dell'atto di diniego, ma ha per oggetto solo la fondatezza della pretesa; né la situazione muta se l'ente previdenziale, dopo aver accertato il diritto a pensione, ritira (o revoca) il relativo atto, poiché anche in questo caso l'azione giudiziaria non può riguardare la legittimità del provvedimento monitorio, ma deve avere per oggetto la sussistenza o la persistenza dell'invalidità. 2. - Ritiene la Corte che il ricorso non meriti accoglimento. Va al riguardo premesso che il motivo di ricorso non censura adeguatamente, vale a dire in termini specifici, l'accertamento del giudice di merito secondo cui l'intimazione stragiudiziale dell'Inps faceva genericamente riferimento alla restituzione di somme asseritamente corrisposte senza titolo, senza che in essa fossero indicati gli estremi del pagamento e le condizioni che non ne avrebbero legittimato la corresponsione. Nel suo nucleo essenziale il ricorso è, in realtà, affidato all'assunto secondo cui, ove l'istituto assicuratore pretenda la ripetizione di prestazioni previdenziali indebitamente corrisposte, grava sull'assicurato, che assuma l'iniziativa giudiziaria, l'onere di contestare la richiesta dell'istituto stesso e di dimostrarne l'illegittimità attraverso la prova degli elementi che, in base alla normativa vigente, legittimerebbero l'erogazione di quella determinata prestazione. Così delineato l'oggetto della controversia, appare chiaro che essa pone in discussione la questione relativa all'onere della prova nelle azioni di ripetizione dell'indebito, con particolare riferimento alle azioni di accertamento negativo. 3. - È indubbio che nell'indebito oggettivo, previsto dall'art. 2033 cod. civ., costituisce elemento della fattispecie costitutiva del diritto alla ripetizione non solo l'avvenuta esecuzione del pagamento, ma anche la mancanza di una causa che lo giustifichi, cioè l'inesistenza del vincolo giuridico idoneo a giustificarlo o il successivo venir meno della causa debendi. Sul piano processuale ne deriverebbe l'esigenza che l'attore in ripetizione indichi tempestivamente, con la specificazione richiesta dalle circostanze, le ragioni per le quali il pagamento è qualificabile come indebito, ragioni che concorrono ad integrare la causa petendi, e che debba provvedere alla prova delle relative circostanze. Né vi è ragione di ritenere non applicabili tali principi di carattere generale nella materia previdenziale. 4. - Sennonché la questione appare più complessa nelle azioni di accertamento negativo in relazione alle quali appare dominante in giurisprudenza la tesi secondo cui l'onere della prova grava sul soggetto che agisce in giudizio (cfr. Cass. n. 1454/1951, 4724/1989 e 2032/2006; nonché Cass. n. 23229/2004 e 384/2007, contenenti principi in materia di prova di fatti negativi in relazioni ad azioni di accertamento negativo). In senso contrario si è pronunciata una sentenza di questa Corte (n. 1391/1985) sulla base della esplicita affermazione che i principi generali sull'onere della prova trovano applicazione indipendentemente dalla circostanza che la causa sia stata instaurata dal debitore con azione di accertamento negativo, con la conseguenza che anche in tale situazione sono a carico del creditore le conseguenze della mancata dimostrazione degli elementi costitutivi della pretesa. Oltre che nella sentenza testé richiamata, anche in una recente decisione, ampiamente motivata, si è inteso da parte di questa Corte affermare un indirizzo contrario a quello che si è definito dominante (cfr. Cass. n. 19762/2008); e ad esso ritiene di aderire il Collegio nella persuasione che la prevalente giurisprudenza di legittimità non abbia colto il carattere specifico delle azioni di accertamento proposte in tema di ripetizione di indebito. Come si è osservato nella pronunzia da ultimo menzionata, l'orientamento giurisprudenziale dominante si collega a opinioni autorevolmente sostenute in sede dottrinale già nella vigenza del codice di procedura civile del 1865, sul presupposto del rilievo preminente svolto in materia di onere della prova dalla posizione processuale delle parti e della esistenza di un onere più ampio, c.d. primario, a carico dell'attore. Si è anche ritenuto che l'attribuzione in ogni caso dell'onere della prova all'attore in accertamento negativo costituisca una sorta di necessario contrappeso alla ritenuta ammissibilità delle azioni di accertamento, la cui proposizione altrimenti potrebbe mettere in difficoltà la difesa del convenuto (o comunque vessarlo). Peraltro, tale indirizzo giurisprudenziale non risulta conforme alle regola fondamentale sulla distribuzione dell'onere della prova di cui all'art. 2697 c.c., aggrava ingiustificatamente la posizione di soggetti indotti o praticamente costretti a promuovere un'azione di accertamento negativo dalle circostanze e specificamente da iniziative stragiudiziali o giudiziali della controparte e, inoltre, non è effettivamente giustificato dalla finalità di prevenire azioni di accertamento non aventi oggettiva giustificazione. Quanto all'art. 2697 c.c., l'affermazione secondo cui la dizione, dallo stesso utilizzata - “chi vuol far valere un diritto in giudizio” - implica che sia colui che prende l'iniziativa di introdurre il giudizio ad essere gravato dell'onere di “provare i fatti che ne costituiscono il fondamento” contrasta innanzitutto con la stessa lettera della disposizione, poiché l'attore in accertamento negativo non fa valere il diritto oggetto dell'accertamento giudiziale ma al contrario ne postula l'inesistenza, ed è invece il convenuto che virtualmente o concretamente fa valere tale diritto, essendo la parte controinteressata rispetto all'azione di accertamento negativo. Una considerazione complessiva delle regole di distribuzione dell'onere della prova di cui ai due commi dell'art. 2967 c.c. (che, come osservato in dottrina, può essere considerato specificazione del più generale principio secondo cui l'onere della prova deve gravare sulla parte che invoca le conseguenze per lei favorevoli previste dalla norma), conferma che esse sono fondate non già sulla posizione della parte nel processo, ma sul criterio di natura sostanziale relativo al tipo di efficacia, rispetto al diritto oggetto del giudizio e all'interesse delle parti, dei fatti incidenti sul medesimo. Dare rilievo all'iniziativa processuale vuol dire, quindi, alterare in radice i criteri previsti dalla legge per la distribuzione dell'onere della prova, addossando al soggetto passivo del rapporto, in caso di accertamento negativo, l'onere della prova circa i fatti costitutivi del diritto e quindi imponendogli la prova di fatti negativi, astrattamente possibile ma spesso assai difficile. Diventano inoperanti anche i criteri elaborati dalla dottrina e dalla giurisprudenza ai fini dell'applicazione dell'art. 2697 c.c. e in particolare della distinzione tra fatti costitutivi e fatti impeditivi, come per esempio quello secondo cui è maggiormente ragionevole gravare dell'onere probatorio la parte a cui è più vicino il fatto da provare (in materia, cfr. Cass., Sez., un., n. 141/2006 sul ruolo costitutivo o impeditivo della dimensione dell'impresa ai fini dell'applicabilità della tutela cd. reale ex l. n. 300 del 1970, art. 18, comma 1, nei confronti di un licenziamento illegittimo). Può, poi, in particolare rilevarsi che collegare la distribuzione dell'onere della prova al ruolo delle parti quanto all'iniziativa processuale, invece che alla posizione sostanziale delle stesse riguardo ai diritti oggetto del giudizio, crea particolari problemi quando relativamente allo stesso diritto le posizioni processuali si intreccino a seguito della proposizione da parte del convenuto in accertamento negativo di una domanda riconvenzionale per il pagamento del credito oggetto del giudizio. In tal caso il criterio formulato dalla giurisprudenza (cfr. Cass. n. 23229/2004 e 384/2007), secondo cui ambedue le parti dovranno ritenersi gravate dall'onere di provare le rispettive contrapposte pretese, non appare provvisto di un saldo fondamento logico-giuridico e non sembra suscettibile di avere in ogni caso implicazioni chiare e ragionevoli. Appare, infine, improprio affidare ad una modifica del normale regime probatorio la funzione di contenimento della proposizione di azioni di accertamento negativo, considerato anche che a tal fine opera un diverso e più puntuale criterio, comune alle azioni di accertamento positivo e negativo e fondato sulla configurabilità caso per caso di un giustificato interesse della parte attrice. È importante anche considerare che non di rado colui che agisce in via di accertamento negativo lo fa perché praticamente costretto dalla minaccia di attuazione, o anche da concreti atti di esercizio, del diritto vantato dalla controparte (situazione configurabile anche con riferimento ad atti dell'Inps dichiarativi di un suo diritto alla ripetizione dell'indebito, poiché l'ente ha la facoltà di recuperare le somme mediante ritenute sulle prestazioni pensionistiche via via maturate, come espressamente previsto dalla l. n. 662 del 1996, art. 1, comma 262). 5. - Sulla base delle osservazioni che precedono in punto di onere della prova nelle azioni di accertamento negativo e in quelle di ripetizione dell'indebito risulta confermata l'infondatezza del ricorso dell'Inps. È solo opportuno precisare ulteriormente che non può ritenersi conferente la giurisprudenza, richiamata dall'istituto, circa il carattere non provvedimentale degli atti con cui vengono accolte le domande amministrative degli assicurati, alla luce della quale, nel caso in cui in un momento successivo il diritto venga disconosciuto dall'istituto, grava sull'assicurato la prova di tutti gli elementi costitutivi della prestazione. Tale giurisprudenza, infatti, si riferisce ai casi in cui l'istituto assicuratore si limiti ad interrompere l'erogazione di una prestazione di tipo pensionistico, asserendo, per esempio, il venir meno della condizione di invalidità prevista dalla legge, senza agire per la ripetizione dei ratei precedentemente corrisposti, e l'assicurato agisca per il ripristino della prestazione (Cass., Sez. un., n. 10033/1991; cfr. anche Cass., Sez. un., n. 383/1999 e Cass. 9638/2000, 12256/2003). Al rigetto del ricorso segue la condanna della parte soccombente al pagamento delle spese processuali, liquidate come in dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare le spese processuali, che liquida in euro 10,00, oltre euro 1.500,00 per onorari, oltre IVA, spese generali e CPA, con attribuzione in favore dell'avv. Paolo Blasi che si dichiara antistatario.

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