venerdì 20 dicembre 2013

Principio de "il più contiene il meno": come ovviare all'ipotesi in cui il CTU riconosce l'inabilita', mentre nel ricorso introduttivo è stata richiesta la sola invalidita'?

Numerosi colleghi mi chiedono consigli su come ovviare all'ipotesi in cui nel ricorso introduttivo sia stata richiesta la sola invalidità, mentre, a chiusura delle operazioni peritali, il CTU ritiene addirittura di riconoscere l'assistito totalmente inabile.

Le strade percorribili sono essenzialmente due:
1) Possibilità di avanzare nel corso del giudizio domanda di prestazione non richiesta nel ricorso introduttivo; sull’argomento qualche tempo fa ho scritto un apposito articolo che troverete al seguente LINK

2) Possibilità di richiedere la prestazione originariamente richiesta, anche se il CTU ha riconosciuto un complesso invalidante nettamente superiore (sulla base del principio “il più contiene il meno”); a fondamento di ciò si vedano le motivazioni addotte dal collegio giudicante della Sezione Lavoro della Corte d’Appello di Napoli nella Sentenza n° 6669/07, a seguire dopo il salto.

Sull'argomento si legga anche la DISCUSSIONE NEL FORUM  

Carmine Buonomo

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Sentenza N. 6669/07



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE DI APPELLO DI NAPOLI

Sezione controversie di lavoro e di previdenza ed assistenza composta dai magistrati:

1. dr. Filippo de Caprariis Presidente

2. dr. Pasquale Cristiano Consigliere

3. dr. Gabriele di Maio Consigliere Rel.


riunita in camera di consiglio ha pronunciato in grado di appello all’udienza del 27/09/2007 la seguente sentenza

SENTENZA

Nella causa civile iscritta al n. 4088/2004 R.G. sezione lavoro,vertente



TRA

XXXX 

APPELLANTE



E

ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE – I.N.P.S., in persona del Presidente legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso come da procura generale alle liti dall’Avv. XX ed unitamente a quest’ultimo elettivamente domiciliato in Napoli alla via Galileo Ferrarsi n. 4.



APPELLATO



SVOLGIMENTO DEL PROCESSO



Con ricorso depositato in data 30/04/02 P.M. adiva il giudice del lavoro di Napoli onde ottenere nei confronti dell’INPS declaratoria del diritto a percepire il trattamento di invalidità civile spettante, con le conseguenti statuizioni di condanna.

L’INPS si costituiva contestando il fondamento della domanda, della quale si chiedeva il rigetto.

Espletata C.T.U. il giudice adito, con sentenza n. 8818/04 pronunciata in data 16/04/04, rigettava la domanda, con integrale compensazione tra le parti delle spese di lite.

Con ricorso depositato in data 19/05/04 P.M. proponeva appello davanti a questa Corte avverso tale decisione lamentando che il primo giudice aveva erroneamente disatteso la propria domanda di assegno di invalidità. Concludeva pertanto affinché la propria domanda relativa a tale prestazione fosse accolta.

Instauratosi il contraddittorio, l’INPS si costituiva chiedendo il rigetto del gravame.

Alla odierna udienza di discussione la causa è stata decisa come da dispositivo.



MOTIVI DELLA DECISIONE



Ai fini della esatta delimitazione del “Thema decidendum”, giova ricordare che P. M. aveva richiesto, con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, la condanna dell’INPS al pagamento in proprio favore della pensione di inabilità, dell’indennità di accompagnamento ovvero ed in subordine dell’assegno di invalidità.

Il CTU incaricato dal Tribunale di verificare le condizioni della P.M. aveva concluso per la sussistenza di una totale inabilità, peraltro senza necessità di accompagnamento, in considerazione della capacità di deambulazione e di compimento degli atti quotidiani della vita da parte della ricorrente.

Il primo Giudice, pur condividendo in toto le risultanze peritali (della cui validità nemmeno le parti dubitano, richiamandosi anzi entrambe alle stesse), ha ritenuto di non poter concedere non solo l’indennità di accompagnamento (difettandone già il presupposto sanitario) e la chiesta pensione di inabilità (difettandone i requisiti reddituali, ma nemmeno l’assegno di invalidità, con la motivazione che “il requisito sanitario richiesto per tale prestazione postula una ridotta capacità lavorativa che il CTU ha invece escluso”.

L’appellante critica solo “in parte qua” la sentenza (non discute più quindi delle altre prestazioni inizialmente richieste), lamentando che l’assegno andava concesso anche in presenza di uno stato inabilitante, e sussistendo gli altri requisiti di legge.

Il rilievo è fondato.

Come questa Corte ha affermato nell’affrontare analoghe questioni, non può infatti negarsi il diritto all’assegno di invalidità sul presupposto che l’invalido, per ottenere tale prestazione, debba rimanere in possesso di una capacità lavorativa residua che ne consenta il proficuo impiego in mansioni compatibili con il suo stato.

Come è noto, l’art. 13 della legge n. 118/71 prevede la concessione dell’assegno mensile ai mutilati ed invalidi civili di età compresa fra il diciottesimo ed il sessantacinquesimo anno nei cui confronti sia accertata una riduzione della capacità lavorativa nella misura almeno del 74% (così elevata dall’art. 9 del d.lgs. n.509/88), che siano “incollocati al lavoro e per il tempo in cui tale condizione sussiste”.

Essendosi manifestato un contrasto di giurisprudenza all’interno della sezione lavoro della Cassazione sulla definizione del concetto di “incollocato al lavoro” – in particolare, era controverso se per aversi tale condizione fosse necessaria o meno l’iscrizione nelle liste speciali di collocamento degli invalidi – le sezioni unite, con la nota sentenza n. 203/92, precisarono che “incollocato è colui che ha adempiuto l’onere di un comportamento teso al fine del collocamento e, ciò nonostante, sia rimasto inoccupato. Questo comportamento – attese le specifiche provvidenze predisposte dal legislatore con la L. 482/68 sul collocamento obbligatorio degli invalidi – si sostanzia nell’attivazione dei meccanismi in tale legge previsti, e quindi nell’iscrizione (o nella domanda di iscrizione) nelle liste speciali di collocamento degli invalidi”. La Corte concluse dunque che “ la mancata iscrizione (o domanda di iscrizione) in tali liste si traduce in un difetto del requisito stesso, come tale rilevante ai fini della decisione sul diritto all’assegno di invalidità: essa non dà luogo alla mancanza di una prova qualificata dello stato di disoccupazione…. ma dà luogo alla mancanza di uno dei fatti costitutivi del diritto”.

Da tali principi alcuni giudici di merito hanno desunto che il cittadino totalmente inabile, essendo nella impossibilità di essere iscritto nelle liste speciali in quanto privo di capacità lavorativa residua, non possa ottenere l’assegno, anche se in possesso del requisito di reddito previsto per tale prestazione, e possa solo richiedere la pensione di inabilità.

Osserva il collegio che la situazione del soggetto che non possa ottenere l’iscrizione nelle liste speciali in quanto inabile al 100% è del tutto simile, sul piano giuridico, a quella del cittadini invalido in misura pari o superiore al 74% cui l’iscrizione sia preclusa perché abbia superato i 55 anni di età. Per l’uno e per l’altro, infatti, l’iscrizione è impedita da un ostacolo di ordine giuridico, ovverosia da un divieto di legge, pur sussistendo il requisito di fatto di una invalidità superiore alla soglia del 74%. Ed è proprio la legge a sancire, anche formalmente, tale equiparazione, giacché è la medesima norma – ovverosia l’art. 1, 2° comma, della legge n. 482/68, applicabile al caso in esame trattandosi di fattispecie anteriore all’entrata in vigore della legge n, 68/99 – che esclude dal collocamento obbligatorio sia gli invalidi civili che abbiano superato il cinquantacinquesimo anno di età, sia coloro che abbiano perduto ogni capacità lavorativa.

L’affinità delle due fattispecie, uniformemente disciplinate dalla stessa norma di legge, comporta la necessità di attribuire all’espressione”non collocati al lavoro” il medesimo significato in relazione ad entrambe le ipotesi.

Per quanto riguarda gli invalidi ultracinquantacinquenni che abbiano fatto domanda all’assegno di invalidità, un orientamento consolidato ed univoco della Cassazione ha chiarito che non può trovare applicazione il requisito dello stato di incollocazione del lavoro , inteso come il protrarsi della situazione di non occupazione malgrado l’iscrizione nelle liste speciali del collocamento, poiché all’invalido che abbia superato il predetto limite di età è preclusa l’iscrizione; per cui nei loro confronti deve ritenersi sufficiente la dimostrazione dello stato di disoccupazione o di non occupazione, che può essere fornita con gli ordinari mezzi di prova (cfr. Cass., sez. lav., 2-1-01 n.4; id., 28-8-00 n.11271; id., 3-8-00 n. 10205; id., 3-6-00 n. 7432; id., 19-2-00 n. 1948; id., 15-3.99 n. 2310; id., 23-12-98 n. 12844; id., 1-8-98).

L’orientamento deve essere pienamente condiviso, giacché accoglie una definizione dello stato di “incollocazione al lavoro” logica e coerente, identificandola nella condizione del soggetto che sia privo di lavoro, pur avendo posto in essere tutto quanto era nelle sue possibilità per trovare una occupazione.

Una nozione del requisito in esame che imponesse, rigidamente, ed in ogni caso, il presupposto della iscrizione degli invalidi nelle liste speciali del collocamento, anche quando tale adempimento sia precluso dalla legge, comporterebbe una lettura estensiva della norma non giustificata dalla sua formulazione letterale, dal momento che l’art. 13 della legge parla di soggetti “incollocati al lavoro”, e non di “iscritti nelle liste del collocamento speciale”.

Orbene, “non collocati” vuol dire, in senso letterale, “che non sono stati collocati al lavoro” e null’altro. E’ evidente che con tale espressione la legge ha inteso far riferimento anche – ma non solo – al sistema del collocamento pubblico, avendo voluto riconoscere il beneficio economico agli invalidi che non siano riusciti a conseguire un’occupazione per il tramite dell’ufficio di collocamento, o in qualunque altro modo. In questo senso l’interpretazione della Cassazione – sezioni unite e sezione lavoro -. è univoca e priva di oscillazioni.

E’ altrettanto evidente che il testo della norma indica il requisito in esame con un’espressione puramente negativa, nel senso che attribuisce la possibilità di ottenere l’assegno a coloro che “non siano collocati “ al lavoro.

Non si rinviene, invece, nella formulazione letterale dell’art. 13 la prescrizione di un comportamento positivo dell’invalido, cioè di un comportamento indirizzato a conseguire un’occupazione.

Certamente a questo risultato interpretativo è possibile giungere, come ha fatto la Suprema Corte, in via di interpretazione logica, dovendo attribuirsi al termine “non collocati”un contenuto maggiore rispetto al semplice stato di disoccupazione o di non occupazione ed essendo palese – come si è detto – il riferimento al sistema di avviamento al lavoro

previsto dal vigente ordinamento.

Pur tuttavia non si deve ignorare che già a questa conclusione si perviene attraverso una interpretazione estensiva del testo di legge, cui viene attribuito un significato più ampio di quello fatto palese dalle parole usate dal legislatore.

Per poter attribuire all’espressione “non collocati” un senso ancora più ampio, in modo da trasformarla nella prescrizione rigorosa – e quindi formale – di un adempimento positivo, quale è l’iscrizione nelle liste del collocamento obbligatorio, fino al punto da escludere dal beneficio dell’assegno gli invalidi che non abbiano chiesto l’iscrizione perché non sono nelle condizioni di poterla ottenere, bisognerebbe ricorrere ad una operazione interpretativa eccessivamente estensiva e poco rispettosa del testo normativo. Un’interpretazione così severa sarebbe giustificata solo di fronte ad una norma che esplicitamente condizionasse la concessione dell’assegno al requisito della iscrizione nelle liste.

Ben più aderente alla lettera della legge sembra essere, invece, l’interpretazione che ravvisa nell’espressione “non collocati al lavoro” l’indicazione di uno stato di disoccupazione (o di non occupazione) non imputabile all’invalido, nel senso cioè che questi si trovi privo di occupazione pur avendo osservato un comportamento volto a conseguirla. Fin qui l’estensione del testo in via ermeneutica può ritenersi giustificata dal riferimento ai principi generali dell’ordinamento , ove ricorrono ripetutamente i concetti di “ordinaria diligenza” o di “diligenza del buon padre di famiglia”, per cui sembra logico richiedere anche all’invalido disoccupato che aspiri alla prestazione assistenziale un comportamento caratterizzato da un normale grado di diligenza.

Oltre questo limite, invece, si profila il rischio di uno stravolgimento del testo dell’art. 13, neppure giustificato dalle esigenze della logica e dell’equità.

Infatti, negare il beneficio della prestazione assistenziale a cittadini invalidi e disoccupati cui la legge – per ragioni obiettive a loro non imputabili – non consente l’iscrizione al collocamento speciale (perché di età superiore a quella utile per il collocamento o perché totalmente inabili al lavoro, come nel caso in specie) finirebbe col condurre a conseguenze inaccettabili, particolarmente evidenti nel caso degli inabili.

In particolare, si giungerebbe all’assurdo che nel caso di due cittadini forniti di reddito uguale, inferiore al limite previsto dalla legge per l’assegno, l’uno invalido al 74%, l’altro al 100%, solo il primo potrebbe ottenere una prestazione economica in quanto iscritto al collocamento speciale.

Il secondo, invece, pur essendo maggiormente svantaggiato rispetto alla possibilità di provvedere al proprio sostentamento, si vedrebbe negato l’assegno in quanto non iscrivibile al collocamento.

E potrebbe vedersi negata anche la pensione di inabilità, qualora il proprio reddito cumulato con quello del coniuge – reddito complessivo cui, secondo un cospicuo orientamento giurisprudenziale cui questa Corte ha aderito in numerose precedenti decisioni, occorre far riferimento ai fini del conseguimento della pensione – superasse il limite massimo fissato dalla legge per tale prestazione.

Nella medesima situazione reddituale, invece, l’invalido al 74% avrebbe diritto a percepire l’assegno, sol perché iscritto nelle liste del collocamento.

Altrettanto illogica sarebbe l’interpretazione qui criticata nel caso di un cittadino titolare di assegno – invalido in misura compresa fra il 74% e il 99% e, per tale condizione, iscritto nelle liste del collocamento speciale – che a causa dell’aggravamento del proprio stato di salute venisse riconosciuto totalmente inabile al lavoro e cancellato quindi dalle liste: ebbene costui, solo per effetto dell’aggravarsi del grado di invalidità (evento che lo rende ancor più bisognoso di pubblica assistenza), si vedrebbe revocata la prestazione assistenziale di cui già fruisce e rischierebbe di restare escluso da qualsiasi beneficio economico nel caso che il reddito “cumulato” sia superiore alla soglia prevista per la pensione.

L’irrazionalità di simili effetti porrebbe gravi dubbi di lesione dei principi costituzionali, con particolare riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione.

Come ha ripetutamente affermato la Corte Costituzionale, è compito del giudice ordinario, chiamato ad applicare una norma di legge suscettibile di diverse interpretazioni, taluna delle quali presenti dubbi di costituzionalità, verificare se sia possibile individuare una soluzione esegetica conforme ai principi della Costituzione, prima di rimettere la norma al vaglio del giudice delle leggi.

Il rispetto di questo principio costituisce, dunque, un ulteriore argomento per preferire l’interpretazione che consente anche al cittadino totalmente inabile di conseguire l’assegno di invalidità, purché in possesso del requisito di reddito prescritto.

L’esistenza del requisito reddituale previsto per l’assegno è stata, tuttavia documentalmente provata solo per gli anni 2001 e 2002.

In conclusione, quindi, deve riconoscersi condannarsi l’appellato a corrispondere i ratei di assegno di invalidità spettanti all’appellante dal 1-1-2001 al 31-12-2002, oltre accessori come per legge dalla decadenza di ciascun rateo fino all’integrale soddisfo.

Consegue altresì la condanna dell’INPS soccombente alla rifusione di metà delle spese del doppio grado di giudizio, liquidate come in dispositivo e con distrazione in favore del procuratore antistatario, ravvisandosi nel parziale rigetto della domanda e nella peculiarità e complessità delle questioni trattate giusti motivi per compensare fra le parti la quota residua.

P.Q.M.



La Corte così provvede:

a) accoglie per quanto di ragione l’appello e, per l’effetto, in riforma dell’impugnata sentenza, condanna l’INPS al pagamento in favore dell’appellante dei ratei di assegno di invalidità spettanti dal 1-1-2001 al 31-12-2002, oltre accessori come per legge dalla data di maturazione dei singoli ratei al soddisfo;

b) compensa per metà tra le parti le spese del doppio grado e condanna l’INPS al pagamento della residua metà, liquidata in euro 450,00, di cui euro 200,00 per onorari, per il primo grado ed in euro 600,00, di cui euro 250,00 per onorari, per il presente grado, con attribuzione.

Così deciso in Napoli, li 27-9-2007

Il consigliere est.



Il Presidente


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